Vitti na crozza

Un canto struggente e amaro

di Margherita Simonte

“Si nni eru, si nni eru li me anni

si nni eru, si nni eru un sacciu unni

ora ca sugnu vecchio di ottantanni

chiamu la morti i idda m' arrispunni”

Così un vecchio interroga il teschio di un uomo, in mostra sulla torre, col quale condivide la sensazione “ca di li vermi su manciatu tutto” e la speranza di aver in parte espiato le proprie colpe in questa vita per non pagarle tutte dopo la morte. Almeno lui ha la possibilità che i suoi cari preparino il letto per circondarlo durante la veglia funebre e non ricevere il destino dell'interlocutore, di morire senza il rintocco delle campane, usanza questa che fa pensare alla sorte dei minatori dispersi nelle miniere di zolfo siciliane e per i quali la chiesa non faceva suonar le campane a morte.

Un canto struggente e amaro che viene fatto risalire ad inni garibaldini o alla battaglia del Piave, ma delle quali origini ben poco si sa.

Non vi sono tracce del brano nei libri di canti popolari dell'Ottocento, la sua prima registrazione risale al 1951 ad opera del tenore Michelangelo Verso, mentre la musica venne registrata alla SIAE da Franco Li Causi nel 1950, dopo che ne ascoltò il testo da un minatore di Favara,Giuseppe Cibardo Bisaccia. Il canto venne utilizzato come colonna sonora del film “Il cammino della speranza” di Pietro Germi.

Nel 2015 andò in scena “Dal ventre della Terra” di Sara Favarò, che racconta la vera storia di “vitti na crozza”, l'autrice spiega la sua intenzione di “rendere giustizia a chi è morto dimenticato”, parole che in questo anno si fanno sentire come graffi sul cuore, in memoria di tutti quelle persone che hanno perso la vita nella solitudine e senza una degna sepoltura per mesi.

Ciò che distingue il brano che tutti conoscono dal primo registrato,  è la presenza del refrain “lallalleru”, il brano fu accelerato da un 4/4 a un 2/4 e venne trasportato dalla tonalità minore a quella maggiore, perdendo un po' del cuore blues che il testo racchiude, rendendolo orecchiabile, una ballata.

Voglio sottolineare però che il lallalleru, per quanto abbia fatto perdere d'intensità il testo, credendo di star canticchiando una canzone allegra, è comunque un elemento importante della tradizione siciliana, infatti un tempo la massaia che versava con “l'ogghiarolu” dell'olio nella minestra dei contadini, per dosarne la quantità ripeteva un “Lallalleru”, che diventavano due o tre quando giungeva al piatto del marito (“Il libro di Erice” realizzato dal 2° Circolo Didattico di Erice- Trentapiedi- Trapani).

Il “lallalleru” diventa simbolo della dedizione e dell'amore della famiglia, creando un ossimoro col testo che lo rende ancora più affascinante.

 

 

 

Taste & Knowledge

Voci da Favignana
di Umberto Rizza
Paesaggi e assaggi
di Guido Conti
Sguardo obliquo
di Manuela Soressi