L'anagramma dei ricordi

Il primo libro di Ramona Aloia

by madeinegadi

L'anagramma dei ricordi è il romanzo d'esordio di Ramona Aloia, una giovane e bravissima autrice che abbiamo imparato a conoscere grazie ai corsi di scrittura creativa organizzati a Favignana e che ci ha già regalato alcuni splendidi racconti per questo portale. 

"L'anagramma dei ricordi" narra le vicende di una trentenne dei giorni nostri, preda delle sue fragilità, ma alla continua ricerca di un equilibrio. Come dentro a una favola di Lewis Carroll, Alice si troverà a percorrere strade sconosciute, a scavare dentro di sé, a rimettere insieme quei ricordi tristi sepolti nella sua memoria. Per farlo, attraverserà le sue paure più grandi fino a mettere in discussione tutto: il lavoro, gli affetti, perfino se stessa.
"L'anagramma dei ricordi" è un viaggio verso il perdono, narrato con delicatezza e ironia, un invito ad accogliere il dolore e accettarlo, un abbraccio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.

Nell'augurare a Ramona il riconoscimento che merita per questa sua nuova avventura letteraria, vi segnaliamo che potete trovare L'anagramma dei ricordi su Amazon in versione KINDLE e cartaceo.

 

Prologo

Era una tiepida giornata d'ottobre. Banale. Nel mezzo del cammin di nostra vita. Già sentito. C'era una volta. Infantile. Era una notte piena di stelle e d'amore. Noioso. Non so proprio come cominciare.

Ma dai?

Chissà perché in qualsiasi campo delle attività e delle relazioni umane la cosa più difficile da fare è sempre il primo passo. Non ricordo più le volte in cui mi sono sentita dire: “la parte più complicata è solo all'inizio, vedrai che il resto sarà tutto in discesa”. Ovvio. Ditelo anche a mia madre che aspetta ancora di iniziare la dieta.

Comunque, io questa storia del primo passo la voglio affrontare, ma dal momento in cui non faccio altro che giocare a guardia e ladri con le parole, ho deciso di oltrepassare questo ostacolo cominciando dalla fine. Dall'ultimo passo.

 

Fine

Non ci sto. Un libro non può finire così, dai! Ma che finale è questo? Dopo due giorni e due notti rinchiusa in casa, in cui mi sono limitata a nutrirmi e a idratarmi il minimo indispensabile per sopravvivere, presa com'ero dalla lettura, non riesco ad accettare di rimanere così... senza parole.

Dov'è il senso di appagamento che dovrebbe darti un libro appena concluso?

È come se il grande amore della mia vita mi avesse prima illusa e poi lasciata all'improvviso senza una spiegazione decente.

Sì, bella tutta la storia, per carità, ma il lieto fine c'è stato oppure no? Non è che l'ho ben capito a dire il vero. Mi ricorda quei film d'amore in cui i due protagonisti si rincorrono superando milioni di peripezie, fin quando, dopo due ore che ti scoppia la vescica, ti bruciano gli occhi e hai divorato tutti i popcorn e anche le unghie delle mani, i due finalmente si trovano e... finisce il film. E tu non hai capito se staranno insieme, se decideranno di sposarsi e avere dei figli o se ognuno continuerà per la propria strada. Non è giusto, che perdita di tempo!

Eppure, la storia di Alice mi era piaciuta davvero. Una storia con la quale ero riuscita facilmente a immedesimarmi.

Alice era una trentenne come tante, piena di sogni e di paure. Non c'era niente di speciale in lei, se non la sua stessa complicata semplicità. Una donna che non amava stare al centro dell'attenzione, ma che allo stesso tempo era alla ricerca dell'approvazione di tutti. Timida nei sentimenti, selettiva nelle relazioni, ma estroversa con chi la conosceva veramente; fragile e forte, paurosa e determinata. Una contraddizione vivente. E forse, proprio nella sua contraddizione, si nascondeva la sua più grande verità.

Lei era così, odiava le etichette, anche quelle dei vestiti. Metri di stoffa cucita sotto gli indumenti che nessuno leggerà mai – come mia mamma, per esempio, che finisce per lavare tutto a 60° donando forme nuove agli indumenti: maglioni divenuti magliette della salute per neonati, camicie bianche diventate rosa, t-shirt con stampe completamente sbiadite. Forse è proprio a causa di mia madre che secondo me le etichette non servono a niente, tranne che a graffiarci il collo.

E Alice la pensava proprio come me. Lei che cercava di distinguersi, non per essere migliore, ma solo per essere diversa. Non voleva essere classificata, “N.C.” Non classificabile. Non capiva come fosse possibile tipizzare le emozioni, dividerle per categorie, potersi descrivere con una sola parola, essere ogni giorno simpatici, intelligenti, socievoli, forti e determinati. La vita ci fa scoprire tutte le sfumature di cui siamo capaci: il giallo della solarità, il rosa della dolcezza, il blu del coraggio, ma anche il grigio dell'insicurezza fino al nero della paura. Alice era in grado di cambiare colore ogni giorno, io addirittura più volte nel giro di pochi minuti. Spesso mi vesto di blu per nascondere il grigio, o di grigio per nascondere il nero; ma le volte più belle sono quelle in cui mi tingo di bianco. È in quel momento che sono veramente me stessa.

Alice il più delle volte era verde. Non verde come la speranza, ma verde come la rinascita. Dell'intensità di verde uguale a quello delle foglie di edera che si attaccano al muro, un po' invadenti forse, ma resistenti e con le radici puntate verso l'alto.

Era una specie di figura mitologica, metà albero e metà uccello, anzi no, credo fosse più come un gigante, con la testa che arrivava fin sopra le nuvole. Perché lei era così, una parte avvertiva la necessità di sentire la terra sotto ai piedi, di essere concreta e razionale, di avere il controllo su tutto; l'altra parte, invece, quella dal cuore fino ai capelli, si rifugiava tra le nuvole ogni volta che ne sentiva il bisogno.

Così passava il suo tempo divisa a metà: Alice sognatrice e Alice disillusa, Alice sfrontata e Alice timida, Alice bianca e Alice nera. C'era una moltitudine di Alici in Alice, un bel casino veramente, che io a confronto mi sento “normale” e, fidatevi, non lo sono per niente.

 

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